Chi è Bruno Prota?
A tale dualismo l’autore è pervenuto ricorrendo ad uno strumento o machiavello alquanto usuale in pittura essendo stato posto a base di alcune correnti di grande rottura risalenti all’inizio del ‘900 e che ancor oggi viene utilizzato, sia pure in forme e con finalità del tutto diverse, nell’arte contemporanea (almeno fino alla espulsione, ormai in corso da alcuni decenni, di ogni strumento tradizionale del fare arte).
Ci si vuole qui riferire all’abbandono della secolare consuetudine di abbinare ai temi drammatici o tragici o semplicemente seri, colori scuri ed opachi con un trionfo di neri, terre marroni o, al massimo, grigi di diverse tonalità e calore. Dall’oscuro uniforme emergevano, per contrasto, improvvise ed accecanti luci che scolpivano i soggetti e gli oggetti ritenuti principali dagli autori, di guisa che su di essi e solo su di essi si dovesse concentrare l’attenzione.
Pittura, quella antica, essenzialmente di studio e cavalletto poiché anche gli eventuali sprazzi paesaggistici – talora molto importanti, come nella pittura veneta – venivano studiati e abbozzati dal vero per essere poi stesi sulla tela più comodamente e accuratamente nello studio.
Ma quando nacque l’intuizione che il quadro potesse essere eseguito anche all’aria aperta, ci si accorse che il colore (i colori) affrancato dall’effetto notte reso necessario anche dall’uso di candele e torce, ha un proprio ed intrinseco significato nella creazione dell’opera nel cui contesto ciascuna luce variamente riflessa dalla superficie dei corpi trova la propria funzione individuale e collettiva.
ln estrema sintesi, tale rivoluzione condusse, in un primo tempo, all’imitazione sulla tela della natura che si presenta come una sinfonia di colori – oltre che di linee – imitazione peraltro mitigata dalla scelta di semplificare, velocizzare e sintetizzare per masse (impressionisti, post impressionisti ed epigoni).
Ma ben presto anche con il sorgere e l’affermarsi dello studio della natura umana nei suoi processi psichici inconsci e conflittuali, ci si rese conto che forse nulla come il colore era capace di esprimere visivamente gli stati d’animo, i conflitti interni, le fobie ed angosce dell’essere umano.
Ogni colore e l’accostamento di ciascuno all’altro hanno un significato ulteriore che va al di là della finalità estetico/imitativa per sconfinare nei campi della psiche e delle passioni umane.
La storia nella sua parte sistematizzata e quindi al netto delle nuovissime tendenze (meglio, singoli accadimenti) in attesa di una non facile catalogazione, insegna che la valorizzazione del colore, intesa come riconoscimento della sua funzione autonoma e non servente, ha avuto varie e diverse declinazioni nel tempo e, talora, nel contempo.
Nei “fauves” l’uso “smodato” del colore appare finalizzato alla proposizione felice di un’altra realtà ricreata su basi del tutto irrealistiche delle forme e soprattutto del colore naturale, di modo che il significato estetico traesse origine non già dall’armonia tra le singole parti bensì dalla contrapposizione timbrica delle medesime. Tutto, peraltro, finalizzato (almeno fino a quando il fauvismo non trasmigra nell’espressionismo per cui i due movimenti visti dinamicamente diventano difficilmente distinguibili) allo svelamento di una bellezza, nuova nei parametri, ma già in modo forse inconscio facente parte del patrimonio culturale umano e, perciò accettata.
Le cose si complicano notevolmente con l’avvento e l’esplosione dell’Espressionismo nel quale (soprattutto in quello tedesco) l`introspezione psicologica attuata soprattutto attraverso l’uso del colore entro forme volutamente sintetizzate, acuminate e acutizzate, assume assoluta rilevanza.
Tutti gli stati d’animo dell’uomo, particolarmente quelli estremi della disperazione, follia, aggressività vengono espressi con l’uso di colori violenti e innaturali, molto spesso puri.
Anche il paesaggio, attraverso un processo antropocentrico, partecipa delle passioni umane di coloro che in esso sono destinate a vivere.
Discendendo ora da questa forse troppo lunga ed aulica premessa storica verso la più delimitata valutazione della pittura di Bruno PROTA, intanto non è dubbio che essa vada inquadrata nell’ambito non già della pittura c.d.naturalistica, bensì in quella “lato sensu” espressionista.
Rimane, peraltro, non chiaro quale sia il grado e l’intensità dell’adesione al credo espressionista e, su tal punto, se il fatto può in qualche modo interessare, si sono manifestate due alquanto diverse opinioni.
- Opzione della totale accettazione della chiave di lettura in senso espressionista
Secondo tale opinione, colore e linee sono indirizzate ad esplorare l’anima umana particolarmente sotto l’aspetto della solitudine e della incomunicabilità.
Si dice infatti che una costante della pittura di Bruno PROTA che la rende riconoscibile nello scorrere del tempo è la rappresentazione della realtà sempre interiorizzata, da cui lo spettatore, riconoscendosi, si sente attratto e coinvolto lino a far diventare propri i sentimenti di cui è messaggero.
I personaggi, fermati e quasi filmati nei momenti casuali e ripetitivi della loro vita (in tram, per la strada, in viaggio, al caffè, sulla spiaggia) esprimono tutti la condizione propria e fondamentale dell’uomo e cioè l’inquietudine e la vana attesa che portano fatalmente all’isolamento e alla solitudine. Ognuno di loro non comunica e non vuole comunicare con gli altri. Anche le città (Venezia, Londra, Barcellona, San Pietroburgo), come fossero persone, si fanno carico di questa impossibilità di interloquire.
A questa grigia desolazione, in un forte e violento contrasto si contrappone – in chiave prettamente espressionistica – l’esplosione di tutta una tavolozza di colori, spesso puri, che rendono ancora più drammatico il contrasto tra ciò che appare e ciò che è, isolando anche visivamente le persone che sono sempre numerose, ma solo prossime e non vicine.
- Opzione di una più moderata lettura in senso espressionista
Secondo questa più moderata opinione, mentre è certo che lo strumento usato (colori violenti e contrastanti, spesso puri) è tipicamente espressionista, altrettanto non può dirsi per lo “spirito” che anima le composizioni, teso non già a rendere visibili le più esasperate, violente, pericolose, distruttive pulsioni dell’animo umano, bensì a richiedere attenzione sugli aspetti più intimi, comuni e in un certo senso normali dell’essere umano: la difficoltà di entrare in contatto e capirsi con gli altri, di uscire da quel guscio che ci imprigiona e costringe, impedendoci di condividere le nostre ed altrui angosce.
Entro tale più moderata visione, la novità della pittura di PROTA starebbe nella conversione di una modalità nata per i grandi sommovimenti interni ed esterni – ma sempre riferibili alla psiche dell’uomo – ad una meditazione sulla condizione umana considerata in sé è quindi a prescindere dagli eventuali tragici aggravamenti dovuti ai pensieri o ai fatti attribuibili comunque all’uomo.
In sintesi (e questa sembra la conclusione più convincente), PROTA ha consapevolmente rinunciato a porre L’URLO all’apice e come presupposto del suo fare pittura, conducendo, sia pure attraverso lo strumento di una tavolozza estremamente vivace, in territori nei quali i drammi e le tragedie lasciano almeno in parte il campo alla melanconica meditazione sulla natura e sul destino dell’uomo.